L’Europa cambi passo: sul Green Deal non si può creare un eterno conflittoDI ANTONIO PICASSO

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Lunedì scorso, con i riflettori puntati sul Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo, i ministri Ue dell’Ambiente hanno dato l’ok alla legge sul ripristino della natura, insieme ad altre misure portanti del Green Deal (green claim e packaging). Il voto però ha fatto barcollare le politiche eco friendly della Commissione uscente. La Nature restoration law è passata sì, ma con l’opposizione di Italia, Ungheria, Polonia, Paesi Bassi, Finlandia e Svezia (astenuto il Belgio). Tutti partner di peso per l’Unione. Il che dovrebbe far riflettere Ursula von der Leyen su come gestire i negoziati per la sua non scontata conferma alla presidenza della Commissione.

Tanto più che il via libera alla norma si è avuto grazie alla ministra austriaca dell’Ambiente, Leonore Gewessler, (verdi), accusata poi di insubordinazione dal suo premier, il popolare Karl Nehammer, che le aveva dato una tutt’altra indicazione. La questione ora se la sbroglieranno a Vienna, però a Bruxelles devono capire che il Green Deal non può continuare a essere la fonte di un conflitto permanente. Tra popolari e verdi, imprese e ambientalisti, moderati e idealisti. Questa è una dialettica inutile per tutti. La legge sulla natura dice che i paesi Ue dovranno ripristinare almeno il 30% degli habitat in cattive condizioni entro il 2030, praticamente dopodomani. In questo clima di nomine, con il manuale Cencelli tradotto in tutte le lingue europee, si avverte l’assenza di come verranno realizzate queste ambizioni. Sia che prevalga la strada massimalista, sia che si vada per una più accomodante.

LE DECISIONI SUGLI ALTRI DOSSIER 

Di natura più tecnica sono state le decisioni sugli altri due dossier. Tuttavia sbaglieremmo ad attribuirne minore importanza. Al contrario, in un contesto culturale e sociale in cui la sostenibilità è sempre più al centro delle scelte del consumatore, le normative comunitarie su come un prodotto venga posizionato sul mercato hanno ricadute ben più immediate rispetto ai massimi sistemi di cui parla la legge sulla natura. Nomisma osserva che, negli ultimi tre anni, si è arrivati al 51% di italiani che adotta scelte di acquisto sostenibili per l’ambiente. È segno che le imprese devono comunicare al consumatore come il prodotto è stato fatto, evitando etichette ingannevoli. I vari “free from”, olio di palma e zucchero per prima cosa, non hanno alcun valore. Né nutrizionale né ambientale. Giusto quindi trattarli come fuorvianti operazioni di greenwashing.

CONTRO LO SPRECO ALIMENTARE 

D’altra parte, così come il consumatore è suscettibile alle informazioni delle etichette è altrettanto sensibile alla qualità e alla conservazione del prodotto. E qui entra in gioco il packaging. Troppa plastica fa male all’ambiente, ma preserva il cibo, riduce l’uso di conservanti e contiene lo spreco. Quindi che si fa? La linea di Bruxelles, lunedì, è apparsa attendista. Il comunicato finale parla di un “approccio generale volto a mitigare lo spreco alimentare”. Parole che vogliono dir tutto come nulla. L’Ue è tra due fuochi. I paesi scandinavi premono affinché prevalga il riuso dell’imballaggio. Ma l’Italia, patria della plastica fin dai tempi di Giulio Natta, da anni è leader europea nel riciclo. Davvero vogliamo abbandonare in discarica un materiale così utile nella nostra quotidianità? E per sostituirlo con cosa? Ma ancora: quanto ha senso mettere l’una contro l’altra due tecnologie – riuso e riciclo – entrambe virtuose? Tra pochi giorni si avrà il passaggio di consegne della presidenza di turno. Dopo il Belgio arriva l’Ungheria. Orban non è certo il migliore amico di Ursula von der Leyen. E tanto meno del suo Green Deal. Eppure è su questi e altri temi che dovranno negoziare. Non solo sui nomi.

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