Mettere la Scuola a LavoroUn estratto dell'articolo di Stefano Cianciotta per Il Foglio, 10 Gennaio 2017

Che lavoro faranno i nostri figli? Non lo possiamo sapere perché quel lavoro non è stato ancora inventato, e molti giovani italiani, al contrario dei colleghi statunitensi che da bambini sanno già che cambieranno in media dai cinque ai sette lavori, sono ancora alla ricerca di uno spazio di comfort che gli possa garantire un impiego stabile.

Secondo la London School of Economics, invece, il 56 per cento dei lavori rischia di sparire in Italia entro due decenni. Per calcolarlo sono stati incrociati i dati sul mercato del lavoro europeo con gli studi sulla capacità evolutiva delle macchine. E secondo l’analisi l’Italia abbonda di impieghi ripetitivi e facilmente riproducibili anche da algoritmi e robot: impiegati, operai non specializzati, magazzinieri. Proprio come in Bulgaria e Grecia, altri paesi a rischio occupazione nel prossimo ventennio.

In Italia, tuttavia, ogni giorno nascono quattro startup, un fenomeno che conferma la voglia di autoimprenditorialità del nostro paese. Al contrario di quelle statunitensi, però, le startup italiane sono sottocapitalizzate ed entro un anno un terzo di loro sparisce dal mercato. L’Italia è stato da sempre un paese votato a fare impresa.
Questa attitudine, che ha dato vita a quella che i sociologi e gli economisti hanno definito Terza Italia, fatta di distretti produttivi, capitalismo molecolare, territori che si facevano via via protagonisti, va recuperata e implementata. Prima di tutto, però va reso attuale il sistema della formazione. Molti dei lavori che si svolgono ancora oggi tra pochi anni non esisteranno più, e la vera differenza la faranno la conoscenza e la competenza, ma anche la passione e il coraggio di seguire le proprie aspirazioni.

In che modo la scuola, e modelli didattici innovativi, possono contribuire a sostenere le aspirazioni dei giovani e a trasformare le loro attitudini in modelli vincenti di impresa? Sotto questo profilo la scuola, e in generale tutto il sistema della formazione, devono tornare a essere il luogo che aiuta lo studente a fare emergere le proprie inclinazioni, devono essere lo spazio dove scoprire e provare a risolvere problemi, dove sbagliare e imparare a rialzarsi.

Se vogliamo davvero realizzare la classe intelligente o la classe aperta, bisogna andare oltre il tradizionale dibattito attorno alla riforma della scuola, incentrata sull’organizzazione del lavoro e sulla pianificazione dei programmi, che tra l’altro negli anni ha prodotto risultati molto scarsi (si vedano i mancati obiettivi della Riforma Berlinguer e l’indagine Ocse-Pisa che ha di recente certificato negli studenti un netto calo delle competenze scientifiche e un leggero declino nella capacità di lettura), per offrire invece un nuovo paradigma didattico e pedagogico, capace di rimettere al centro di tutto lo studente di ogni ordine e grado.

Perché una cosa è certa: la scuola non può più essere un’istituzione separata dal resto della società, e in particolare dal mercato del lavoro, ma oggi più che mai deve essere integrata come spazio dove allenare costantemente curiosità, creatività e intraprendenza, oltre che apprendere nuove conoscenze ed esperienze. Niente, quindi, è più importante dell’istruzione. I genitori si preoccupano di scegliere la scuola migliore per i loro figli, ma è più importante sapere chi sarà il loro insegnante.

Nel 1992 l’economista Eric Hanushek analizzò migliaia di dati sull’efficacia degli insegnanti e arrivò a una conclusione impressionante: uno studente nella classe di un insegnante particolarmente inefficace – nel 5 per cento più basso della classifica – impara in media la metà del programma di un anno scolastico; al contrario nella classe di un insegnante molto efficace – nel 5 per cento più alto – imparerebbe l’equivalente di un anno e mezzo di programma.

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