Io Robot: l’Occupazione Sale e i Salari Scendono

L’idea di Pietro Paganini

Il Governo si appresta ad affrontare la questione lavoro. Circola l’idea di incentivare le nuove assunzioni. Benissimo. La leva fiscale è sempre un ottimo strumento. Non sempre funziona però, in particolare se le imprese non hanno bisogno di manodopera. È anche una misura di emergenza, cioè per riattivare la crescita dell’occupazione nell’immediato.

Non si ripeta quindi l’errore del Jobs Act. Servono politiche di più ampio respiro che prendano in considerazione quanto sta accadendo intorno a noi, o meglio quanto ci sta coinvolgendo. In questo senso va apprezzata la mozione Carrozza che promuove l’attività di formazione e ricerca all’interno delle scuole e università italiane in relazione dell’impatto che i robot avranno sul mondo del lavoro.

Un nuovo report, appena presentato da PWC, stima che il 38% dei lavori USA potrebbe essere sostituito dalle macchine entro il 2030 (il 35% in Germania e il 30% in Inghilterra). Altre ricerche ipotizzano addirittura che 4 lavoratori su 10 lasceranno il posto alle macchine entro il 2022.

Con l’avvento dei robot dunque dovrebbe aumentare la disoccupazione, almeno nel breve tempo, cioè mentre chi viene sostituito dalle macchine si rieduca, il cosiddetto re-skilling. Paradossalmente, almeno per il momento i robot, con buona pace dei tecno fobici, non stanno creando disoccupazione, almeno negli USA. Qui la disoccupazione è ai minimi. La produttività è ritornata a crescere, ma i salari restano al palo. Le ragioni sono tre, almeno stando ai primi dati:

1 – Le imprese che automatizzano tendono a non licenziare nell’immediato e a ricollocare i dipendenti al proprio interno;

2 – I dipendenti che perdono o stanno per perdere il proprio lavoro, per lasciarlo ai robot, si rieducano – re-skill – anche se è un processo che richiede tempo, e soprattutto un sistema scuola-lavoro molto ben integrato. Non è il caso dell’Italia, mentre lo è da tempo, nei paesi scandinavi;

3 – I dipendenti che perdono o stanno per perdere il proprio lavoro tendono ad adeguarsi – punto (1) – a mansioni che richiedono meno competenze, sono meno produttivi e quindi pagano meno. Questo spiega i salari stagnanti e in parte rischia di sconfessare il punto (2), il re-skilling.

In teoria, dobbiamo auspicare processi produttivi sempre più automatizzati, e quindi una capacità di adattamento sempre più rapida – fast re-skilling – di noi esseri umani, o meglio delle generazioni che ci seguono, punto (2).
Se fosse solo vero il punto (3) rischiamo di finire in un ciclo vizioso. Si abbassano i salari, poi i consumi, poi la produttività e infine gli investimenti in innovazione. Avrebbero così ragione i fobici dei robot, alcuni dei quali hanno già elaborato il nuovo capitolo dello storicismo marxista: il neo schiavismo dei laureati. Ci dobbiamo concentrare sul punto (2), ed immaginare le condizioni di mercato e di welfare per sostenerlo.

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