Al G7 anche l’intelligenza artificialeDI ANTONIO PICASSO

L’Intelligenza artificiale è davvero uno strumento di pace? La domanda è d’obbligo perché, nonostante così la stiano trattando al G7 di Borgo Egnazia in questi giorni, la realtà sembra andare nella direzione opposta. Venerdì scorso infatti, l’ormai uscente Capo della diplomazia Ue, Josep Borrell, ha lanciato l’allarme sul rischio che la Russia potesse sabotare il voto tramite l’Ai. L’idea che Putin ci scruti nel segreto dell’urna dovrebbe suggerirci che la guerra non è soltanto una cosa che succede laggiù, a qualche centinaio di chilometri dalla frontiera polacca. Al contrario, è una sporca faccenda che ci coinvolge, sempre di più e da vicino. D’altra parte, viene da chiedersi che senso abbia avuto varare l’Ai Act, neanche due mesi fa, se poi di fatto ci lascia scoperti in caso di cyber attack.

LE DEBOLEZZE NOTE

Le debolezze della legge sull’Intelligenza artificiale sono note: vaga, aperta a facili interpretazioni e inefficace nel prevenire minacce da regimi ostili. Tuttavia, ha il pregio di essere l’unica al mondo. Dopo l’accelerata, rispetto al resto della comunità internazionale, le nuove istituzioni di Strasburgo e Bruxelles devono agire affinché la transizione digitale porti a un nuovo livello di benessere collettivo e, appunto, di pace. In tal senso, c’è chi auspica che l’Intelligenza artificiale venga spogliata di qualsiasi profitto. È la direzione intrapresa dalla Finlandia, dove il programma nazionale “AuroraAi”, prevede che l’Ai diventi un patrimonio pubblico. Il progetto regge in termini etici.

Tuttavia, cosa c’è di male nel trarre profitto dalle nuove tecnologie messe al servizio della società? Il problema è che di imprese europee in grado di competere con i colossi della tecnologia generativa – Open Ai e Gemini prime fra tutte – non ce ne sono. Questo vuol dire che di qualsiasi identità si voglia vestire la nostra transizione digitale, per essere implementata, dovrà comunque far riferimento a soggetti extra Ue. A questo handicap si aggiunge la scarsa formazione del cittadino. Un recente rapporto di Deloitte dice che, tra Ue e Regno Unito, oltre il 33% della forza lavoro manca delle competenze digitali necessarie. È un problema non da poco.

UN COMMISSARIO AD HOC 

Un lavoratore o uno studente, non pratico dei rischi e vantaggi dell’Ai, è anche un elettore esposto alle manipolazioni di potenze straniere, che sanno perfettamente come trasformare un algoritmo in un ordigno bellico. Insomma, l’Europa è minacciata non per colpa del Cremlino – oddio, questo sì ci mette del suo – ma perché manca di una struttura industriale e tanto meno è preparata, come società, a evitare che quella digitale sia tutto fuorché un progetto di pace. Oltre alle leggi quindi, serve la nomina di un Commissario ad hoc per l’Intelligenza artificiale, delegato a stimolare tutti gli attori potenzialmente interessati ad andare oltre l’Ai Act e ad assegnare alla nostra sovranità tecnologica una propria concretezza. Bisogna permettere alle start up di fare un salto di qualità e soprattutto di dimensioni. Dagli incubatori devono spiccare il volo unicorni. I sistemi scolastici e universitari nazionali devono armonizzarsi condividendo un percorso didattico il cui obiettivo è creare una nuova generazione di cittadini europei digitalizzati. Ci vantiamo, giustamente, di essere una potenza industriale, oltre che un modello di democrazia. Con l’Ai ci giochiamo questo futuro.

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Articolo pubblicato su Il Riformista>>>

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