Donne e Lavoro: la Sfida Rimane ApertaL'articolo di Benedetta Fiani per Affaritaliani.it

Puntuale come un orologio svizzero, arriva l’ennesima rilevazione OECD a bastonare l’Italia. Questa volta ad uscirne martoriata è la partecipazione femminile al lavoro che, nel nostro Paese, è tra le più basse di area OECD. Nonostante le nostre ragazze siano fra le più istruite e nonostante il gap salariale a favore degli uomini, in Italia, sia sorprendentemente basso – magra consolazione.

Come recuperare, allora? Facilitando l’ingresso e la permanenza delle donne nel mercato del lavoro, cercando dei canali e delle soluzioni innovative che permettano di conciliare professione e famiglia.

A restituire un quadro desolante dell’occupazione femminile in Italia sono i numeri. Il tasso di partecipazione alla forza lavoro delle donne è del 48%, contro il 66% maschile. Il divario supera il 18% contro una media OECD del 12%. Ma oltre il danno la beffa, perché le donne lavorano in media più degli uomini, se al lavoro retribuito sommiamo le ore di lavoro non pagato, cioè quello dedicato alla cura delle persone e della casa. Una donna tra i 15 e i 64 anni, in Italia, dedica al lavoro non pagato 315 minuti al giorno e 197 a quello retribuito, mentre un uomo con un’occupazione dedica al proprio lavoro circa 349 minuti al giorno e riserva alle mansioni non retribuite appena 105 minuti al giorno.

Nei paesi nordici questo divario è di gran lunga più contenuto e la risposta è quasi scontata: un sistema di welfare che garantisce alle donne servizi di assistenza all’infanzia di ottima qualità. E non sono bastati i sostegni alle famiglie messi in piedi dal Governo – come i voucher – per appianare le enormi disparità nei risultati. L’OECD ha infatti calcolato che tra il 2007 e il 2013 la perdita di reddito annua per una famiglia alla nascita di un figlio, in Italia è stata in media del 31%. Uno shock reddituale pesantissimo che può avere diverse ragioni, ma tutto fa pensare che ad incidere sulla dinamica siano le scelte “obbligate” delle donne: alla nascita di un figlio o si smette di lavorare o si dimezza il tempo dedicato alla professione.

Alle statistiche ufficiali occorre aggiungere le occupazioni informali, come li lavoro autonomo, per allargare un quadro già di per sé poco allettante. Infatti l’incidenza del lavoro autonomo femminile nel nostro paese è tra i più alti dei paesi OECD (16%). Ed in questo caso il divario salariale rispetto ai lavoratori autonomi di sesso maschile è piuttosto ampio: un differenziale del 54%. Le motivazioni risiedono nei ruoli. Le donne tendenzialmente lavorano in settori meno redditizi e per meno ore dei colleghi uomini e dato il divario di genere nel lavoro non retribuito è plausibile che le autonome italiane facciano più fatica a conciliare le responsabilità fra professione retribuita e mansioni non pagate.

Eppure ci sono dei segnali di miglioramento da considerare. La proporzione di donne nei vertici aziendali è aumentata significativamente, anche grazie all’introduzione delle quote di genere nelle società, passando dal 15% del 2013 al 30% nel 2016.

Le proposte di policy per intervenire ed ampliare il tasso di partecipazione femminile al lavoro dovrebbero capitalizzarsi attorno ai benefici di intraprendere percorsi universitari volti alla tecnologia e all’innovazione – settori in grande espansione ma in cui si fatica ad arruolare personale qualificato. Inoltre lo smart working, grazie alla flessibilità dell’orario, può aiutare donne e uomini a bilanciare il tempo dedicato al lavoro e quello dedicato alla famiglia, con effetti positivi sull’equilibrio di genere sia a casa che in azienda.

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