Il Fantasma di ErraniL'articolo di Stefano Cianciotta per Il Foglio

In un paese nel quale si occupano di prevenzione a vario titolo 3.600 enti, e che conta per la definizione dei procedimenti 1.200 norme, con tempi lunghissimi per arrivare a una decisione (la durata media di una Valutazione di impatto ambientale è di 30 mesi), parlare di modelli per la ricostruzione è banale e francamente stucchevole perché l’unico modello che può funzionare in una situazione di emergenza è quello che va in deroga alle norme ordinarie.
Assediati, però, dalla semplificazione che ci obbliga a indicare dei modelli, alcuni positivi (Emilia Romagna, Umbria e Friuli), altri fallimentari prima e poi diventati invece esemplari (L’Aquila), altri ancora da evitare assolutamente (Belice e Campania), come se si trattasse di abiti che si plasmano e si fasciano a misura di comunità, possiamo affermare che il modello di ricostruzione del terremoto Centro Italia a oggi è stato un fallimento.

A quasi un anno dal sisma del 24 agosto il bilancio è assolutamente negativo con qualche decina di casette assegnate (peraltro a sorte), cumuli di macerie che giacciono ancora a ostruire le vie dei paesi dell’Italia centrale, una generale disaffezione delle comunità locali verso le istituzioni nazionali.
La gestione di una gravissima emer genza, quale è quella che stanno vivendo le regioni dell’Italia centrale, non si poteva di certo affrontare con la medicina canonica della Pubblica amministrazione italiana, caratterizzata da troppi centri di potere e non da centri di responsabilità, e da un numero considerevole di strutture amministrative che continuano a condizionarsi a vicenda.

La filiera disegnata dal Decreto sulla ricostruzione non poteva del resto funzionare, con una governance così lunga e verticale, sulla quale stanno gravando poteri troppo diversi tra loro, come sono quello delle sovrintendenze, dei parchi nazionali, degli uffici speciali dei comuni e delle regioni, della Protezione civile, del commissario e del governo, della stessa Anac guidata da Cantone.
Il fallimento di questo modello organizzativo, nel quale Vasco Errani avrebbe dovuto avere e svolgere un ruolo politico (perché non nominarlo allora sottosegretario alla Ricostruzione?), è balzato agli occhi di tutti dopo la morte per il freddo di decine di animali – il capitale degli allevatori -, è stato evidenziato dall’impossibilità degli abitanti di Norcia di rientrare nelle abitazioni perché nessuno si è preso la briga di autorizzarli, ma soprattutto dall’estrazione a sorte delle casette per alcune centinaia di persone prima ad Amatrice e poi ad Arquata. “Dobbiamo dare poteri straordinari – si affrettò ad affermare in tv da Fazio il premier Gentiloni – a chi si occupa di emergenza e ricostruzione, ovvero alla Protezione civile e al commissario per la ricostruzione”.

La Protezione civile 3.0 targata Gentiloni ripartiva insomma dalla Protezione civile di Bertolaso, una macchina perfetta che funzionava in base a due fondamentali parametri organizzativi: una leadership riconosciuta e acclarata; la possibilità di andare in deroga (anche troppo e in modo oltremodo estensivo) alla normativa ordinaria. Il confronto con la Protezione civile di Bertolaso, simboleggiata anche sul piano delle immagini e della postura dal richiamo del leader al comando e al fare, è improponibile sul piano dei numeri. Tra fine settembre e novembre 2009, a soli cinque mesi dal terremoto, all’Aquila 18 mila persone furono ospitate nelle New Town (progettazione e tecnologia italiana replicata di recente in Nuova Zelanda), e l’anno scolastico cominciò senza alcun ritardo. Quella fase eroica della emergenza fu possibile proprio perché quella Protezione civile, che nel frattempo riuscì a portare all’Aquila tutti i grandi della terra con un G8 improvvisato in poche settimane, era la Protezione civile di Guido Bertolaso. Ne incarnava la sua idea di organizzazione, caratterizzata da una filiera di comando corta, snella, favorita anche dalla possibilità di bypassare le norme ordinarie, con un allineamento chiaro agli obiettivi di tutta la struttura, evidenza che chi li aveva indicati li aveva anche saputi comunicare e condividere con i collaboratori.

Quale sarà adesso il futuro della ricostruzione? Nessuno può dirlo perché a oggi, per usare un eufemismo, i risultati non sono stati affatto brillanti. Si è materializzato, infatti, il rischio concreto che i difetti sul piano organizzativo, che ha contrapposto fin dall’ inizio l’attuale capo della Protezione civile Curcio e il commissario Errani, e una filiera lunghissima, avrebbero di fatto impantanato la macchina della ricostruzione.
L’esperienza di Errani come commissario è ormai ai titoli di coda. Pagherebbe gli scarsi risultati ottenuti fino a oggi e la lacerazione della sinistra. Dalla sua nomina, infatti, l’area del Pd alla quale afferiva si è scissa dal partito guidato da Renzi, e sono venute meno così anche le coperture e le condizioni politiche. Errani andrà via a fine giugno o agli inizi di luglio, questione di settimane insomma, tempo utile per mettere a punto l’exit strategy per l’ex presidente dell’Emilia Romagna (un seggio al Parlamento con Bersani?) e ridisegnare la nuova gover nance, che avrà nei presidenti delle regioni i nuovi riferimenti apicali della filiera.

Del resto che ci si trovi in una fase di grande trasformazione lo ha confermato alcuni giorni fa lo stesso presidente della regione Abruzzo, Luciano D’Alfonso, che in un convegno promosso dall’Ance di Teramo, ha chiaramente detto che a fine giugno sarebbe cambiata la governance della ricostruzione, e che i poteri sarebbero stati trasferiti nelle mani dei subcommissari con l’obiettivo di snellire e velocizzare la ricostruzione. Insomma, l’onere di guidare la ricostruzione passerà da Errani al presidente delle Marche Ceriscioli, a quello dell’ Umbria Marini, a Zingaretti del Lazio e appunto a D’Alfonso. Le Marche hanno il territorio più compromesso con il 62 per cento di interventi da realizzare, seguite da Umbria e Lazio (14 per cento) e Abruzzo (10 per cento).

L’uscita di Errani riporterebbe in auge un modello di ricostruzione molto simile a quello del 1997 utilizzato per l’Umbria, che aveva proprio nelle regioni e nei comuni un punto di riferimento fondamentale senza la intercessione di altri organismi che avrebbero allungato la filiera della burocrazia. Vent’anni fa, però, era un’altra Italia, e soprattutto gli enti locali avevano un peso specifico diverso. La miscela esplosiva di terremoto e neve come non se ne vedeva da almeno 60 anni, è stata infatti acuita nelle regioni dell’ Italia centrale da una riforma imperfetta della Pubblica amministrazione.

Le province, infatti, sono state svuotate in questi anni di competenze fondamentali per la gestione del territorio, e il taglio drastico dei trasferimenti dallo stato centrale ha prodotto riflessi inevitabili anche sul blocco del turn-over del personale, che ha determinato la mancata sostituzione di figure fondamentali nelle articolazioni periferiche, depositarie di un patrimonio di conoscenza del territorio che sarebbe stato utile per pianificare ed accelerare gli interventi di soccorso in Abruzzo, durante l’emergenza dello scorso gennaio. Le calamità naturali di questi anni rendono pertanto necessaria una vera riorganizzazione della Pubblica amministrazione italiana, senza la quale la pianificazione, l’esecuzione, la manutenzione e la gestione del territorio restano solo considerazioni retoriche, che non si traducono in azioni e atti concreti, ma che, invece, nella realtà dei fatti vanno nella direzione opposta.

Su un punto però dobbiamo essere fermi e rigorosi: un paese così fragile, e con una disponibilità di cassa non paragonabile a quella degli anni Sessanta-Settanta, non si può più permettere di avere 8.000 Comuni, quasi la metà con popolazione tra i 1.000 e i 5.000 abitanti (sono 3.617 per la precisione). Se non partiamo da questa pre condizione essenziale, l’accorpamento e la fusione dei comuni e la eliminazione di strutture diventate anonime perché non possono più apportare da soli servizi essenziali alla collettività, viziamo alla origine la discussione. Svuotate le province delle principa li competenze, infatti, i comuni – soprattutto quelli delle aree interne dove le comunità montane hanno svolto solo parzialmente il ruolo di organizzatore dei servizi pubblici essenziali – adesso appaiono come dei fantasmi, senza personale e risorse, monadi isolate sui quali incombe il governo di strutture pubbliche costruite in anni dove la moneta elettorale e clientelare pesava e faceva la differenza. Per non parlare degli edifici scolastici che ospitano quando va bene qualche bambino, diventati un costo insormontabile in termine di manutenzio ne, al pari di immobili che un tempo erano il luogo degli uffici postali. La mancanza di turnover, poi, ha sguarnito le amministrazioni di risorse umane, soprattutto tecniche e con nuove competenze, indispensabili per la gestione dei processi, come abbiamo capito in questi mesi di terremoto.

Chi investe per garantire la correttezza della viabilità in un comune di poche centinaia di abitanti, se non ha un ruolo significativo, ad esempio in ambito turistico, considerato che i piccoli comuni non riusciranno a qualificarsi neppure per la prima soglia di gara, fino a 1 milione di euro? Chi in quel comune analizza dossier strategici e risponde alle richieste di potenziali imprenditori interessati a discutere di investimenti? Ha senso destinare risorse a sostenere interventi emergenziali (si pensi al piano neve) che vanno in aiuto di poche decine di soggetti che risiedono in territori parcellizzati e compromessi?

Solo il tempo ci dirà se la nuova go vernance affidata ai presidenti delle regioni riuscirà nell’intento di rivitalizzare la ricostruzione. Certamente se non si modificano le procedure di individuazione e di selezione delle imprese, difficilmente il sacrificio di Errani sarà servito a qualcosa. A leggere le ordinanze, poi, si comprende ancora una volta quanto centro e periferia viaggino su binari paralleli, e utilizzino codici e linguaggi per alcuni versi antitetici. Nella definizione del quadro normativo per programmare la fase della ricostruzione post sisma, infatti, il tempo è una variabile fondamentale, che presuppone un’attenta analisi a monte delle ipotetiche risultanze dei provvedimenti posti in essere. Proprio la mancanza di analisi della incidenza del fattore tempo sui processi in atto, è uno dei limiti più evidenti della ricostruzione del terremoto, perché si registra uno scollamento palese tra la definizione delle norme, la loro esecuzione e le azioni che dovrebbero essere disciplinate.
All’Aquila, dopo la fase emergenziale segnata dal progetto Case e dalla realizzazione delle New Town, l’immobilismo nella ricostruzione fu superato solo dopo quattro anni dal 2009 grazie all’intuizione dell’allora ministro Fabrizio Barca di istituire gli Uffici speciali e dare vita alla scheda parametrica di valutazione per gli edifici privati. In ogni caso la scelta dell’ af fidamento diretto all’ impresa non è mai stata in discussione.
Per il terremoto che ha coinvolto le regioni dell’ Italia centrale, invece, si è deciso di procedere con le gare, determinando un processo farraginoso e oltremodo rigido, perché il committente nello svolgere la funzione di stazione appaltante, si esporrà al rischio del contenzioso, tipico delle procedure di selezione, con un incontrollabile allungamento dei tempi, come ha dimostrato il disallineamento tra la ricostruzione aquilana privata e pubblica, quest’ultima sostanzialmente ferma.

Basti pensare, ad esempio, che per la realizzazione delle piastre ad Accumoli hanno partecipato 274 imprese. Sulla legittimità dei procedimenti, inoltre, è vincolante il parere dell’ Anac, e hanno voce in capitolo anche Parco e Sovrintendenza, determinando un eccesso di controlli che ha il solo obiettivo di allungare a dismisura i tempi della ricostruzione. Se non si modificherà questo passaggio fondamentale, a metà 2018 saremo di nuovo qui a commentare l’ennesimo fallimento di un modello. O se preferite la vittoria dell’ unico modello che resiste e prospera in Italia: la burocrazia.

IL_FOGLIO_24-06-2017

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