La Nuova Battaglia del Grano e il Protezionismo MaccheronicoL'articolo di Pietro Paganini per Tempi
- 8 August 2017
- Posted by: Competere
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Il governo introduce l’indicazione obbligatoria di origine del grano per la pasta. Non un buon affare e qui si spiega il perché.
Peggio del protezionismo c’è solo il protezionismo maccheronico. Il primo promuove la prosperità economica attraverso la protezione dell’identità e della produzione nazionale limitando o addirittura evitando gli scambi commerciali e la contaminazione culturale, negando di fatto la società aperta. Il secondo, invece, usa la retorica protezionista per favorire interessi corporativi più o meno ristretti, di bottega, danneggiando non solo la libera iniziativa ma anche il più ampio interesse nazionale. Nel 1925 l’Italia fascista diede vita alla Guerra del Grano. Mussolini ambiva a sfamare gli italiani e a raggiungere l’autosufficienza alimentare incentivando la produzione di grano. Protezionismo. Si proibirono le importazioni e la maggior parte delle coltivazioni furono convertite a grano. L’Italia raggiunse anche il primato mondiale per capacità produttiva. Ma il costo fu molto elevato: impoverimento del sistema agricolo con abbandono di colture più ricche e redditizie e diminuzione degli investimenti e della capacità di fare innovazione, aumento dei prezzi, oltre che il fisiologico isolamento e la conseguente riduzione della libertà dei cittadini di commerciare.
Oggi, un secolo più tardi, il ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina in compagnia del ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda promuovono una nuova battaglia del grano, introducendo l’indicazione obbligatoria di origine del grano per la pasta: ogni pacco di pasta dovrà riportare il paese da cui proviene il grano utilizzato per la semola. I due ministri vogliono promuovere la trasparenza ed indirettamente il Made in Italy, cioè il grano italiano. Purtroppo finiscono per tradire entrambe, creando un bel pasticcio. Protezionismo maccheronico.
(I) Questo decreto finirà per confondere il consumatore, illudendolo che il grano italiano è migliore di quello importato (Canada, Francia, USA, etc).
(II) I produttori di pasta sono spinti ad inseguire le paranoie del consumatore e costretti a modificare le proprie ricette e quindi il complesso processo di approvvigionamento, produzione e confezionamento. La bontà della pasta non dipende dall’origine del grano ma dalle sue qualità. Sta alla libertà di imprese ed imprenditori scegliere le miscele di grano da impiegare per garantirci un prodotto di qualità, a prezzi possibilmente competitivi per soddisfare un mercato più ampio.
I pastifici impiegano semole ottenute dalla macinazione di miscele di grano duro provenienti da paesi diversi, selezionate in base alle caratteristiche organolettiche, in particolare il tenore proteico, il glutine e la pigmentazione, che variano in funzione dei raccolti e dei fattori climatici.
Si importa grano duro dall’estero per soddisfare un fabbisogno annuo di 6 milioni di tonnellate – rispetto ad una produzione nazionale media di 3,5/4 milioni di tonnellate – ma soprattutto per rispondere alle esigenze qualitative che spesso il grano italiano non soddisfa.
Per garantire standard qualitativi costanti è quindi necessario adottare politiche di approvvigionamento flessibili, incompatibili con le rigidità che si vogliono imporre in materia di etichettatura.
(III) E’ evidente che questo decreto avrà ripercussioni spiacevoli dopo le fanfare della nuova retorica protezionista. Si scontrerà con il sacrosanto principio di libera concorrenza della Ue. La Commissione europea vuole evitare fenomeni di emulazione da parte degli altri membri ciascuno dei quali ha uno suo prodotto da difendere. Così come eventuali sanzioni a chi non applica la norma rischiano di finire impugnate davanti ad un giudice.
Forse è proprio questo che i due ministri cercano: promuovere un’iniziativa che è destinata a fallire per cause esterne (Ue, cause civili, etc.). Così facendo si accontentano i coltivatori illudendoli e non si scontentano i produttori di pasta lasciando fallire la riforma. È ormai una linea di condotta priva di qualsiasi ambizione che rispecchia la tattica per la sopravvivenza di questo governo: “noi ci abbiamo provato, ma purtroppo è andata male”. Si veda alla voce Libia, Ema (mani già avanti), Fincantieri, e i tanti dossier che circolano e che non ci vedono per nulla protagonisti. Certo, la vera riforma del settore agricolo non può spettare ad un governo di passaggio né tantomeno ad un Governo che favorisce la parte che urla di più rispetto a quella che produce ed esporta con successo uno dei prodotti simbolo del “Made in Italy” nel mondo, a prescindere dall’origine del grano.