La risposta alle crisi bancarie: servono più regole o più coerenza?L'IDEA DI LUCA BELLARDINI

Nell’era della «post-verità» anche le crisi bancarie possono subire una narrazione imprecisa, fondata sul sensazionalismo più che sulla realtà dei fatti. Così, mentre da un lato abbiamo i gravi problemi di liquidità — dunque di mala gestio — dell’americana Silicon Valley Bank (SVB), dall’altro facciamo i conti con il crollo del titolo azionario di Credit Suisse, negli ultimi mesi più volte afflitto dalla notizia di (pesanti) sanzioni irrogate all’istituto per i motivi più disparati. A colpire, però, sono le conseguenze più che le cause delle due vicende.

SVB E CREDIT SUISSE: CHE COSA È SUCCESSO  

La prima è stata chiusa in maniera rapidissima, con lo scioglimento di SVB e la rapida incorporazione da parte di First Citizen di quanto rimasto, a fronte della protezione illimitata per i depositanti e di una cospicua garanzia pubblica — cioè con i soldi dei contribuenti — per tanti altri creditori: di fatto, al di là degli espedienti retorici, un bail-out vecchio stile. La seconda, invece, ha visto una soluzione «all’europea» in salsa però elvetica, quindi con un sostanziale burden sharing — la «condivisione» tra i vari creditori dell’«onere» di ricapitalizzare la banca — affiancato a una soluzione di mercato, la «vendita delle attività» a UBS, dimensionalmente maggiore e di standing più elevato.

LA RISPOSTA DELLE AUTORITÀ

Il modo in cui sono stati affrontati i problemi di Credit Suisse, dunque, parrebbe in linea con la direttiva europea sul risanamento e la «risoluzione» degli enti creditizi (BRRD), sebbene la Svizzera resti fuori dall’UE e dall’Unione bancaria. Tuttavia, risulta diversa la modalità di applicazione di quello che noi chiameremmo bail-in: prima gli obbligazionisti (subordinati), pesantemente colpiti; poi gli azionisti, largamente coperti. UBS è intervenuta nel mercato, facendo un’offerta — troppo riduttiva, secondo molti — ai soci della banca rivale, sotto i buoni auspici delle autorità elvetiche. La vicenda non si concluderà prima di alcune settimane: oltre a quelli strettamente finanziari pesano i riflessi sulla concorrenza, allorché il sistema bancario svizzero verrebbe a essere tra i più concentrati dell’Europa continentale.

Molti si sono chiesti, per esempio, perché SVB non soggiacesse ai requisiti di liquidità previsti dagli accordi di Basilea, o se le regole contabili americane applicabili agli impieghi creditizi fossero adeguate a esprimerne “per tempo” la perdita di valore, in seguito al rialzo dei tassi d’interesse attuato dalla Federal Reserve. Domande legittime, ma forse non risolutive: il futuro è in mano al management dei singoli istituti e soprattutto al buonsenso delle autorità di vigilanza e controllo.   

IL BAIL-IN, QUESTO SCONOSCIUTO  

Come è ormai chiaro, d’altronde, il bail-in è soltanto una chimera. Nell’UE, come recentemente sottolineato da autorevole dottrina (Capriglione e Sepe, su Il Sole 24 Ore del 5 aprile), le autorità competenti per i singoli Stati membri hanno preferito applicare i rimasugli delle norme nazionali — agli istituti più piccoli, di scarsa rilevanza sistemica e dunque in assenza di «interesse pubblico» alla risoluzione — o intervenire con norme ad hoc alternative alla liquidazione.

La recente storia italiana offre numerosi esempi, i più noti dei quali restano i decreti per le «quattro banche» (novembre 2015), Mps (dicembre 2016) e Carige (gennaio 2019). C’è poi il caso delle «due venete», ricapitalizzate — e in seguito acquisite — grazie all’intervento del Fondo Atlante, all’uopo costituito. Ha senso, quindi, continuare a denunciare la spregiudicatezza di certe banche, l’assenza di controlli interni, l’interoperabilità ancora perfettibile delle regole nazionali, laddove è proprio la gestione stessa delle crisi — più che la loro prevenzione — a riservare grandi sorprese, essendo ben lungi dal seguire schemi codificati?

LE DIREZIONI POSSIBILI  

Le strade sono due. La prima consiste in un intervento sostanziale sulla normativa comunitaria, garantendone un’applicazione più immediata e omogenea anche nella fase “fisiologica” dell’operatività di una banca: se in Svizzera e negli USA vedessero che il bail-in non è una leggenda tramandata oralmente (che ciascuna autorità interpreta a modo suo) ma uno strumento concreto, forse ne nascerebbe una riforma globale più “seria”, implementabile con facilità. Certo, resterebbe il tema della protezione degli investitori comunque «al dettaglio», che in Italia fa ancora dubitare della piena costituzionalità della «ricapitalizzazione interna». Gli strumenti di tutela dei risparmiatori esistono, ma vanno indubbiamente potenziati. Una buona qualità degli attivi bancari e un più facile accesso al credito — soprattutto per le PMI — non sono obiettivi in contrasto: possono, anzi devono, essere perseguiti unitariamente.

La seconda strada, invece, è continuare ad affidarsi agli interventi delle autorità. Anche in questo caso manca omogeneità, soprattutto perché — ricordavano sempre Capriglione e Sepe — abbiamo ancora difficoltà nel distinguere i problemi strutturali dalle semplici contingenze di mercato. In realtà, quindi, torneremmo al punto precedente: non può esistere una buona condotta delle banche centrali (anche nelle decisioni di politica monetaria) senza un substrato normativo chiaro e coerente, tale che le conseguenze di un intervento — pure avente natura «straordinaria» — possano essere previste con relativa sicurezza.

Certo, i meccanismi psicologici degli operatori di mercato sono spesso imprevedibili. Ma è sempre meglio usare le proprie energie per migliorare i processi aziendali e intuire cosa succede ai concorrenti, piuttosto che andare a Francoforte col cappello in mano mentre il “tempo” è variabile come nella primavera tedesca. 

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>> Guarda Banche: non è una crisi di sistema <<

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