La ristorazione scolastica mette alla prova la sostenibilità della PaDI Antonio Picasso

Quando si parla di sostenibilità, c’è un elemento che resta in second’ordine alle polemiche allarmistiche e ai luoghi comuni. Ovvero che qualsiasi investimento green rischia di non andare in porto a causa dei colli di bottiglia della Pubblica amministrazione. È sostenibile, va ricordato, tutto ciò è sintesi pratica del rispetto dell’ambiente, del mercato del lavoro e della libertà d’impresa. Senza uno di questi tre elementi, non si può parlare di sostenibilità. L’inefficienza della spesa pubblica, invece, incide sui potenziali investimenti delle imprese private, quanto anche della Pa.

Prendiamo il caso delle linee guida per la ristorazione scolastica. Di che si tratta? Le linee guida per la ristorazione scolastica sono un vademecum – termine orrendo, ma visto che siamo nella langue du bois, ci concediamo il lusso di non badare allo stile – con cui gli enti che assegnano il servizio “in oggetto” indicono le gare, oppure lo attribuiscono come servizio in house, o ancora per affidamento diretto. Detta prosaicamente: sono le istruzioni che le aziende di ristorazione devono seguire per preparare pasti, distribuire merendine o qualsiasi altri alimento in tutte le scuole di ogni ordine e grado d’Italia. Quali gli ingredienti da utilizzare, come cucinare, quali regole di igiene da seguire e via così.

Da qui occhio, perché comincia l’intrigo burocratico. Queste linee guida infatti sono emanate dagli Enti locali – per esempio Regioni, aziende sanitarie territoriali e comuni – ma fanno riferimento ai Criteri ambientali minimi (noti agli addetti ai lavori come Cam), documento-quadro a sua volta di derivazione del Ministero della Transizione Ecologica. Sulla base delle linee guida, ogni ente assegnatario del servizio elabora un proprio capitolato di gara. A rigor di logica, quest’ultimo dovrebbe essere in piena coerenza con i Cam, in quanto normativa superiore di grado. Anzi, volendo essere completi, andrebbe detto che i Cam rispondono ai Criteri dell’Ue per gli appalti pubblici verdi in materia di prodotti alimentari, servizi di ristorazione e distributori automatici, ma non esageriamo.

LUOGO CHE VAI, PA CHE TROVI

Il problema è che l’Italia si finge Paese federale, quindi ogni occasione è buona, per gli Enti locali, per emanciparsi da un regolamento di emanazione ministeriale. Più per principio che per vera convinzione. Ed è questo che sta accadendo nell’assegnazione dei servizi di ristorazione scolastica. Solo dall’inizio di quest’anno, Competere ha monitorato cento gare in cui i capitolati non corrispondevano a quanto prescritto dai Cam. Mentre quest’ultimo permette, tra le tante cose, l’utilizzo di olio di palma certificato come sostenibile, alcune linee guida regionali lo proibiscono, altre non lo vietano, ma fanno capire che – in quanto grasso saturo – non fa bene, un terzo gruppo non vi fa riferimento, infine alcune regioni non hanno linee guida. Questo cosa permette agli enti locali di livello inferiore? Di agire alla todos caballeros. Sulla base di proprie “argomentazioni scientifiche” – le virgolette sono d’obbligo – c’è chi l’olio di palma lo pone quasi ai livelli delle droghe leggere (libera esagerazione, ma solo fino a un certo punto) e chi lo sconsiglia vivamente.

Com’è possibile? Come in tutte le questioni che riguardano la burocrazia, una risposta semplice è da scartare a priori. C’è da fare un ragionamento di opportunità e una spiegazione più squisitamente procedurale. L’olio di palma, in passato infatti, è stato bollato come uno dei mali del mondo. Di conseguenza, così come molte imprese hanno deciso di lavarsi la coscienza con una bella targhetta “palm oil free” sui propri prodotti, altrettanto gli enti locali non si possono permettere la responsabilità di somministrare “cibi avvelenati” – i livelli ideologici sono questi – alle future generazioni. Per un amministratore locale, non c’è cosa peggiore che dover fronteggiare un manipolo di madri (quindi elettori) risentite. Tagliare la testa al toro è facile e utile. Soprattutto quando la procedura aiuta. Chi scriva infatti le linee guida delle gare, o ancora prima chi ne assegni l’incarico di scriverle, non è dato sapersi. Ogni regione, come detto, ha le proprie e non tutte così aggiornate. Quelle del Piemonte datano marzo 2007. Qui viene citato l’olio di palma, se ne sottolineano le criticità (solo quelle, nessun aspetto positivo), ma poi non si dice espressamente cosa fare. Quindi è facile per gli enti locali sottostanti interpretare l’indirizzo (vago) in senso negativo. Ben più espliciti sono il Veneto e la Toscana: linee guida rispettivamente del 2018 e del 2010, che indicano di “evitare” l’olio di palma in una lunga serie di prodotti. Ma le eccellenze per complicazione burocratica sono la Lombardia e le Marche. Nel primo caso le linee guida hanno 19 anni e vietano l’olio di palma sic et simpliciter. A questo sottostanno le linee guida delle singole 9 Ats, che raggruppano le 13 province lombarde, ma di cui solo 5 fanno menzione dell’olio di palma. Nelle Marche invece, le linee guida regionali non parlano di olio di palma, il che permette a ciascuna Azienda sanitaria unica regionale (Asur) di procedere in autonomia. Il tutto alla faccia dei Cam, che chi se li ricorda più?

LE FILIERE AL CENTRO DELLA SOSTENIBILITÀ

È sostenibile tutto questo da un punto di vista economico? Non c’è nessuno che si stracci le vesti per questo incedere all’insegna delle spese inique, dell’irregolarità e quindi dell’incertezza del diritto? Al netto che Ue e Ministero sono tutt’altro che contrari all’olio di palma. Fermo restando che non ha senso logico chiedere a una filiera produttiva di essere sostenibile, per poi, nel momento in cui essa si dota di una certificazione che ne garantisce la sostenibilità, rigettarne l’impegno. Dato infine per scontato che se a un’azienda si vieta l’utilizzo di un ingrediente, non è detto che l’alternativa su cui si butta sia davvero migliore. Il greenwashing, va ammesso, non è un’invenzione di Greta Thunberg. Per far sì che un prodotto, nonostante le leggi, resista sul mercato, la casa madre deve inventarsi la qualunque. E l’esperienza insegna che il successo non è nemmeno garantito. D’altra parte impedire l’uso di un ingrediente che è certificato come sostenibile è una violazione della concorrenza, incostituzionale e ideologicamente in malafede. Altro che sostenibilità!

Tutto questo è uno spreco di risorse.

L’auspicio è che si cominci a ragionare. La Lombardia, che ha celebrato quasi 30 gare da inizio anno, dovrebbe riprendere i valori di quella Expo Milano 2015 di cui si percepiscono ancora i clamori. Valori esplicitati nella Carta di Milano, che riconoscono alle imprese della filiera alimentare un ruolo primario per un futuro sostenibile e giusto.

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