Lavoro, Come Sfidare i RobotPubblichiamo un estratto dell'articolo di Pietro Paganini per La Stampa, 27 marzo 2017

Il lavoro è la sfida più grande che ci aspetta. Dalle prossime politiche per il lavoro dipende il benessere delle future generazioni così come il loro grado di libertà. Ne sono finalmente consapevoli i 27 che sabato hanno firmato la Dichiarazione di Roma auspicando «un’Europa sociale che lotti contro la disoccupazione»; ne è molto preoccupato anche Papa Francesco ad ascoltarne le prediche. Né gli uni né l’altro però, sembrano avere compreso appieno le dinamiche con cui il mercato del lavoro sta evolvendo. Entrambi aspirano a modelli predefiniti che appartengono al passato e che purtroppo non possono risolvere i problemi sollevati dalle trasformazioni in atto. Nemmeno il Presidente Trump, che pur può vantare un’economia più vibrante, sembra aver colto appieno il fenomeno. I dati poi che ci giungono periodicamente non sempre ci sono d’aiuto ma rischiano di confonderci. Secondo uno studio privato (PwC) il 38% dei lavori Usa potrebbe essere sostituito dalle macchine entro il 2030 (il 35% in Germania e il 30% in Inghilterra). Altre ricerche stimano addirittura che 4 lavoratori su 10 lasceranno il posto alle macchine entro il 2022. A questi numeri dobbiamo aggiungere che chi entra oggi nel mercato del lavoro dovrà cambiare tra le 5 e le 7 professioni (Wef) mentre il 40% dei lavoratori americani lavoreranno in proprio entro il 2020. Le prospettive dell’automazione in Italia sono ancora deboli, al di là ovviamente della retorica (di cui siamo maestri) sull’Industria 4.0. Sono altri i numeri che siamo soliti commentare, e gli ultimi sono arrivati ieri: gli under 30 che lavorano nella Pubblica amministrazione sono ridotti al 2,7% (6,8 gli under 35%). Con un tasso di disoccupazione che oscilla intorno al 40%, i «giovani» italiani si rendono indipendenti a quarant’anni.

Sebbene alcuni dei dati che circolano sul futuro del lavoro possono sembrare spropositati, ci troviamo sicuramente di fronte ad un paradosso. I Paesi Ocse che più rapidamente stanno automatizzando i processi produttivi hanno un tasso di disoccupazione molto basso. Al contrario, i Paesi con un tasso di disoccupazione alto – e un basso livello di occupazione – sono quelli in cui l’ automazione dei processi produttivi è ancora molto lenta, come l’Italia. Esattamente l’opposto di quanto si temeva. La produttività resta ancora bassa ovunque invece, addirittura stagnante in Italia. Così non crescono i salari, vedi gli Stati Uniti, generando un legittimo malcontento tra i cittadini. Le cause però non sono da ritrovare nell’automazione. In Italia i salari non crescono perché si produce poco, i giovani non sono stimolati ad entrare nel mercato del lavoro, e quando lo sono si presentano impreparati. Si deve capire come creare più posti e non come proteggere quelli che ci sono.

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