Le Verità Nascoste: Pensioni e Spending ReviewLo Scenario Politico di Lorenzo Castellani

La scorsa settimana il Commissario alla spending review Yoram Gutgeld ha presentato una interessante relazione sull’andamento della spesa pubblica italiana. L’autore di questa newsletter ha estrapolato alcuni grafici che descrivono la situazione italiana. Come è noto lo Stato italiano spende troppo e, negli ultimi anni, il debito pubblico è aumentato ancora raggiungendo il 133% sul PIL. Tuttavia troppo spesso la politica sbandiera il ritornello di “tagliare la spesa improduttiva” (quando va bene, poiché sempre di più sono coloro che chiedono semplicemente di aumentarla) senza mai indicare su quali comparti di spesa intervenire.

Iniziamo con una buona notizia: la spesa delle amministrazioni pubbliche italiane è alta, ma sotto controllo e negli ultimi quattro anni è cresciuta solo dello 0,2%. Un aumento minimo se comparato alle altre principali nazioni europee e ben sotto la media EU del 6.6%. Ha giovato in maniera significativa alla razionalizzazione della spesa della PA la centralizzazione degli acquisti attraverso CONSIP e i nuovi soggetti aggregatori (13% i risparmi indicati dal Governo a fine 2016), una riforma che a breve dovrebbe essere completata dalla definitiva implementazione del nuovo codice appalti. Ancora elevata resta la spesa per i dipendenti pubblici che supera il 50% dei consumi finali della pubblica amministrazione.

Passiamo ora alle notizie meno buone come quella dell’incidenza della spesa pubblica sul PIL. In questo caso siamo ben oltre la media Europa di quasi 2 punti percentuali e lontani da un competitor come la Germania (-5 punti rispetto all’Italia) e la Spagna (-7 punti). Davanti a noi ci sono Francia, Austria e Svezia che nelle classifiche internazionali sulla qualità dei servizi pubblici si piazzano costantemente qualche decina di posizioni davanti al nostro Paese.

Andiamo ora a vedere l’incidenza del interessi sul debito sul PIL. Siamo nettamente capifila con un’incidenza del 4% e ciò significa che una quota più consistente, rispetto agli altri paesi, del bilancio dello Stato deve essere riservata alla spesa per gli interessi. Nel 2016 questi interessi valevano oltre 66 miliardi di euro. D’altronde, il debito pubblico continua a salire condizionando pesantemente il futuro della finanza pubblica italiana.

Tuttavia, il vero problema nascosto è nel prossimo grafico: quello sulla spesa pensionistica. Il governo Renzi con APE social e altri ritocchi sulle pensioni minime ha scelto di far tornare a salire la spesa per le pensioni. Sono stati infatti 12,7 i miliardi spesi dal Governo Renzi per finanziare le prestazioni previdenziali e assistenziali. Una spesa per le prestazioni sociali che a fine 2016 valeva 337,5 miliardi su 829 miliardi complessivi di spesa pubblica. Se l’Italia ha una spesa pubblica complessiva su PIL (grafico 2) superiore alla media europea lo si deve anche e principalmente alla spesa sociale (che è del 3% superiore alla media UE).

Da questa fotografia che il Commissario ci presenta emergono una serie di riflessioni:

a) quale senso ha avuto per i Governi Renzi-Gentiloni, se si esclude quello elettorale di brevissimo periodo, aumentare la spesa pensionistica quando la disoccupazione, in particolare quella giovanile, resta a livelli così elevati? Non sarebbero state scelte strategiche più appropriate quelle di promuovere politiche di formazione e alleggerimento fiscale volte ad avvantaggiare retributivamente e immettere nel circuito occupazionale una generazione schiacciata dalla crisi e dallo Stato?

b) Le pensioni del futuro. Nella busta arancione che i contribuenti hanno ricevuto qualche tempo fa l’INPS avverte che il simulatore è basato su fattori quali la contribuzione versata ma anche su parametri macro economici, quali l’andamento del PIL e l’aspettativa di vita. Chi si cimenta nella simulazione potrà modificare alcune variabili che riguardano l’andamento atteso del tasso di crescita della sua retribuzione/reddito, indicato di default all’1,5%, o eventuali periodi di non occupazione. Ciò che invece non può fare è intervenire sul parametro inserito della rivalutazione annua del montante contributivo che è fissato all’1,5% all’anno, in linea con le previsioni ufficiali delle progressioni medie quinquennali del PIL. Ora però, alla luce dell’andamento del PIL negli ultimi anni e delle future  prossime previsioni, questo 1,5% fisso appare di molto sopravvalutato. Nel 2014, per la prima volta, la media quinquennale del PIL è risultata negativa (- 0.19%). Invece, secondo i dati forniti dalla Ragioneria Generale dello Stato, le future pensioni in rapporto all’ultima retribuzione appaiono tranquillizzanti: si va da un 73 a un 79% per i dipendenti e dal 64 al 71% per i lavoratori autonomi. Se non che queste proiezioni considerano uno sviluppo del PIL dell’1,57%, un’inflazione del 2% e una crescita delle retribuzioni reali dell’1,51%. Che non è quello avvenuto esattamente negli ultimi anni, quando tra il 2008 e il 2015 le annate di recessione sono state ben cinque, tra cui un  -5,5% nel 2009 e un -2,8% nel 2012. Insomma, c’è un rischio elevato per le generazioni più giovani non solo di essere penalizzate oggi nel bilanciamento del welfare, ma anche di non avere in futuro quanto promesso oggi dall’INPS.

c) Come nota Ferdinando Giugliano su Repubblica secondo l’OCSE (dati 2011) il 20% più ricco della popolazione italiana riceve quasi 2 volte e mezzo la spesa sociale che riceve il 20% più povero. Ciò significa che gran parte della spesa in welfare si concentra sui garantiti (pensionati che hanno accumulato patrimonio) penalizzando chi ha perso il lavoro o non è mai riuscito ad entrare nel mercato occupazionale. Ad oggi in Italia esiste una curva ad U per cui gran parte della spesa sociale viene concentrata nella primissima e nell’ultima parte della vita: tra l’uscita da scuola e la fine della carriera lavorativa bisogna sbrigarsela da soli subendo una imposizione fiscale depressiva e volta a finanziare una spesa sociale di cui non si usufruisce. Nel medio-lungo periodo bisognerebbe cercare di invertire la U concentrando il welfare e spostando risorse prevalentemente nel periodo in cui si entra nel mercato del lavoro e/o si rischia di perdere la propria occupazione.

d) Da ultimo una considerazione politica. Il blocco della spesa pensionistica, con le asimmetrie sopra evidenziate, sembra essere intoccabile per tutti i partiti che per ragioni di opportunità politica ritengono di dover tutelare i diritti acquisiti di una fetta di popolazione perché più numerosa e politicamente influente. Così, nascondendosi dietro la coltre dei “tagli alla spesa pubblica improduttiva” o “tagli agli sprechi della politica” i politici italiani hanno dimenticato il welfare ossia il più grande problema di diseguaglianza del Paese. Continuando a difendere e voler incrementare la spesa pensionistica a discapito di imprese, investimenti in formazione, autonomi e disoccupati. E’ su questo tema che la proposta renziana di “rovesciare la piramide” ai tempi delle prime Leopolde si è infranta nell’esercizio pratico dell’azione di governo, con relativo abbandono delle speranze di quell’elettorato appartenente alle categorie meno tutelate dall’architettura del welfare italiano. Nascerà mai un partito capace di farsi portatore di un messaggio politico che oggi esiste (quello dei giovani, dei disoccupati, degli autonomi e in generale dei non garantiti), ma è occupato da altri (prevalentemente il Movimento 5 Stelle e Lega) capaci di intercettare sì la rabbia, ma senza raccontare la verità sulla situazione e offrire soluzioni sostenibili per il futuro del Paese? O sarà, invece, un’ennesima Troika a dover raccogliere il testimone per eseguire (o far eseguire) riforme elettoralmente scomode ma strategicamente vitali come quella del welfare? Sarebbe meglio pensare e fare da soli.

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