Olio di palma sostenibile: una filiera su cui investireDI ANTONIO PICASSO

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Se non fosse che ha il sapore del bieco opportunismo, potremmo dire: “Ve l’avevamo detto”. Quando però c’è una guerra in corso, non si scherza con le polemiche. La decisione di molte imprese della filiera agroalimentare di tornare all’olio di palma, dopo tanti anni di utilizzo di quello di girasole, a causa della strozzatura delle forniture per la crisi russo-ucraina, deve fare da “lesson learnt”.

Concentrarsi su un’unica materia prima e su un solo mercato produttore, come nel caso del girasole Made in Ukraine, è tutto fuorché sinonimo di strategia industriale, crescita economica e sostenibilità. È la stessa dinamica del settore energetico: si crea un monopolista, a cui le imprese di trasformazione sono legate a filo doppio, che però restano a secco in un qualsiasi caso di crisi geopolitica e speculazione finanziaria. Tornando all’olio di palma, le imprese possono permettersi di rapportarsi con più fornitori – alcuni consolidati, come Indonesia e Malesia, altri emergenti, soprattutto in America Latina – e di maneggiare una materia di qualità e sostenibile. Sia sul fronte ambientale, sia in termini economici e sociali.

Tutto questo però richiede una revisione del sistema. In ambito macroeconomico, è necessario tornare a fare politica industriale. Partendo proprio dalle materie prime. Istituzioni, associazioni di categoria – Confindustria come capocordata, ma anche l’Unione italiana dei produttori di olio di palma sostenibile, come associazione di settore – e poi ancora le forze produttive devono essere pienamente consapevoli dell’identità del nostro ecosistema. Siamo un’economia di trasformazione. Ci servono risorse naturali che vengono dall’estero. Alle volte anche da molto lontano. Bisogna pianificare, da qui a dieci anni, l’import di queste commodity. In modo che, se succede qualcosa a un fornitore, il gap venga compensato seduta stante.

Bisogna investire sulla filiera. Dopo anni di ostracismo, l’olio di palma dev’essere valorizzato quanto merita. Primo perché la quasi totalità delle importazioni è certificata come sostenibile. In tal caso, le istituzioni a tutti i livelli governativi devono farsi carico di un pacchetto normativo che, da un lato, impedisca l’ingresso di olio di palma non certificato come sostenibile, dall’altro, prevenga la redazione di norme e linee guide, o comunque qualsiasi iniziativa che vieta l’utilizzo dell’olio di palma solo perché è olio di palma. 

Infine, è necessario un intervento culturale e imprenditoriale insieme, che solo un nucleo compatto di forze produttive può elaborare. Il ritorno all’olio di palma infatti può rappresentare un nuovo fianco esposto agli attacchi delle correnti ambientaliste più intransigenti. Così come per carbone e nucleare, ora che si torna a parlarne in sede Mise – seppure il confronto può apparire improprio – ha portato a un aumento dei toni da parte di chi vede nelle rinnovabili la sola e unica via per una politica energetica di transizione, altrettanto ci potrebbe essere chi alza nuovi scudi contro l’industria in quanto tale proprio perché “colpevole di reiterazione” sull’olio di palma. Le esigenze produttive devono però prevalere A) sull’eventualità di appeasement; B) sulle logiche di marketing. Per questo ha fatto bene il governo a bloccare alcuni brand che pretendevano di continuare a vendere i propri prodotti, contenenti l’olio di palma, ma con la vecchia etichetta “palm oil free”, per evitare di sprecare il packaging già acquisito, ma soprattutto per scansarsi da qualunque rogna. Alla faccia del greenwashing! In un mondo di fake news, disinformazione e infodemia, il messaggio per le imprese come per i consumatori è semplice. Investire sulla filiera dell’olio di palma certificato sostenibile significa fare politica industriale nazione. L’unica alternativa all’olio di palma è l’olio di palma certificato sostenibile.

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