Plastica italiana: fate prestoL'idea di Benedetta Annicchiarico e Carola Macagno

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Il rinvio della Plastic Tax è solo un palliativo. Se la filiera italiana della plastica vuole davvero tornare a essere competitiva deve essere coraggiosa e investire in visionari progetti di ricerca. Come fa la Germania.

UNA PROVOCAZIONE

L’ennesimo rinvio della Plastic Tax – che penalizza plastiche monouso, biodegradabili o no – e allo stesso momento, l’entrata in vigore della direttiva europea Single Use Plastic – che ne vieta l’immissione sul mercato – hanno riacceso l’attenzione sulla plastica. Le industrie della filiera sono con il coltello tra i denti, convinte di essere vittima di una battaglia ideologica che rischia di compromettere una forza produttiva che, solo in Italia, è di circa 11mila imprese, che impiegano 110mila persone, per un fatturato da più da 30 miliardi. Numeri importanti, cui si aggiunge la tradizione industriale e lo spirito di innovazione che, dai tempi del Nobel a Giulio Natta, fanno dell’industria plastica un fiore all’occhiello del Made in Italy. Tuttavia, quanto può avere efficacia prendersela con l’Europa, invece che investire nelle proprie capacità di trasformazione e quindi, con il ricorso a nuove tecnologie, tornare a essere competitivi?

DOVEROSA PREMESSA

Da anni la plastica è considerata come una sorta di demone-padre di tutti i mali del nostro Pianeta. Questa concezione è senza dubbio legata all’uso-abuso che le persone sono arrivate a fare della plastica, la cui produzione mondiale è passata da 1,5 milioni di tonnellate nel 1950 a 367 milioni di tonnellate nel 2020. Tuttavia, non bisogna fare confusione: non è la plastica che inquina, bensì l’uso che ne facciamo. È l’uomo infatti la causa dell’emergenza. È sua la responsabilità degli 8 milioni di tonnellate di plastica che ogni anno finiscono nei mari e negli oceani (sommandosi ai 150 milioni già presenti). 

Il problema principale è che, le stesse proprietà che rendono la plastica un materiale di primaria utilità, la rendono quasi impossibile da decomporre per la natura. I rifiuti, pertanto, possono persistere nell’ambiente per secoli.

DI CHI È LA COLPA? 

Malgrado le si attribuisca la colpa di essere una minaccia per l’ambiente e per la vita, la plastica è un materiale estremamente competitivo ed economico, le cui caratteristiche sono uniche e difficilmente replicabili. Basti pensare al settore alimentare: la maggior parte del relativo packaging è in plastica in quanto, il materiale non solo non influisce sulle proprietà e sulla qualità dei cibi – li preserva infatti da agenti esterni quali ossidazione e batteri – ma ne consente anche la conservazione, senza che si faccia ricorso a conservanti. Esiste dunque un trade-off tra ambiente e salute che non può non essere considerato.

La soluzione, pertanto, deve essere ricercata in una corretta gestione di questo bene: dare una seconda vita alla plastica può portare benefici immensi all’ambiente. Proprio la plastica da imballaggio, che da sola rappresenta il 40% della plastica utilizzata, è il materiale più riciclato in Italia. Nel 2020 il 49% degli imballaggi venivano avviati al riciclo, con un incremento di 4 punti percentuali rispetto all’anno precedente e nonostante i colli di bottiglia causati dalla pandemia. Un ulteriore 44% degli imballaggi è stato destinato al recupero energetico, portando lo smaltimento totale al 93%. L’uso che si fa del materiale riciclato, da indumenti e oggetti a componentistica meccanica per le auto elettriche, chiude il cerchio del modello di economia circolare di cui la filiera della plastica rappresenta un esempio virtuoso. 

BIOPLASTICA? NO, GRAZIE

Al di fuori delle plastiche da imballaggio, la storia cambia un po’: i tassi di riciclo si abbassano infatti al 40%, mentre prodotti alternativi come la bioplastica rimangono ambientalmente controversi. Uno studio del 2021 ha esaminato in maggiore dettaglio l’impatto ambientale della produzione di bioplastica in cinque  Paesi o regioni del mondo, rilevando che quella europea ha la più alta intensità di emissione di CO2 legate alle catene di import di materie prime, scarse in Europa, da cui si ricava la bioplastica davvero degradabile. Ne esistono infatti due tipi: quella ricavata dalla lavorazione di bambù e cellulosa, accettata dall’Ue come ecologica, e quella derivata dalla lavorazione chimica di ingredienti naturali quali amido di mais o zucchero di canna, che invece, a causa dei lunghi tempi di degradazione e dell’uso intensivo di terra, vengono classificate alla stregua della plastica “classica”.

Anche per questo, nel 2019 la Single Use Plastic includeva originariamente la messa al bando anche di questo secondo tipo di bioplastica. In Italia però è stata applicata con una deroga che ne permette il continuato uso nel proprio mercato e il suo smistamento nei rifiuti organici. 

Una scelta di cui non si capisce il senso, se non per tenersi buone le anime più ambientaliste, convinte che basti scrivere “bio” ovunque perché il nostro si trasformi nel migliore dei mondi possibile.

È TEMPO DI UNA NUOVA STAGIONE DI GLORIA PER LA PLASTICA ITALIANA

In fatto di economia delle “Quattro R” (rifiuto, recupero, riuso e riciclo), il nostro Paese è un passo avanti rispetto a molti suoi partner europei. Questo dovrebbe indurci non a fare catenaccio, per difenderci da norme inique, bensì giocare d’attacco con progettualità in grado letteralmente di spiazzare il mercato. 

In questi mesi, al Padiglione Germania dell’Expo di Dubai, sono stati presentati studi sulla produzione di plastica attraverso lo stoccaggio di CO2 e altri sui batteri mangia-plastica. Lavori realizzati in partnership tra università e imprese tedesche. Segno che in Germania, dove il manifatturiero non è certo il miglior amico dei Grünen, gli imprenditori si sono messi a scoprire nuove rotte. Da noi invece, a che punto sono le ricerche dell’Iit suoi nuovi materiali?

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