Un realismo di grandi dimensioni contro il dilagare della cultura NimbyDI ANTONIO PICASSO

È IL TEMPO DI SBRIGATIVI LUOGHI COMUNI

“L’industria agroalimentare ci sta portando al collasso”. È questo il titolo inequivocabile di un articolo di Foreign Policy dello scorso giugno. Titolo cui seguiva – nel caso il lettore non avesse colto la schiettezza – un’ulteriore bordata nel sottotitolo: “Grande non è la migliore delle opzioni”. L’attacco è alle major dell’agrifood, colpevoli, secondo l’analisi, della deriva distruttiva dell’ecosistema globale, dello sfruttamento delle risorse naturali, come pure dell’assoggettamento delle società alle regole dei mercati, a beneficio dei pochi e lasciando a pancia vuota le moltitudini.

Chi scrive non si permetterebbe mai di andare contro quel Foreign Policy che, con altri, fa da pilastro ai cultori delle relazioni internazionali. Ma è altrettanto perplesso nel trovare un intervento così schierato su quella sacra testata. I luoghi comuni e le ideologie non sono risolutivi. Si limitano a facilitare l’osservazione dei fatti. Con una serie di dati – per alcuni aspetti neanche tanto sorprendenti – l’articolo si scaglia contro un nemico facile da attaccare: la multinazionale, Moloch dei nostri tempi, mente e braccio dell’olocausto ambientale che stiamo incoscientemente vivendo.

Visto il taglio dell’analisi, chi legge ha due opzioni: mollare il colpo – alla fine non dice nulla di nuovo, ma va nutrire solo la bulimia di chi vive di conferme ideologiche – oppure farsi una semplice domanda. È davvero così? E quindi: avranno pur fatto qualcosa di decente queste multinazionali? E se non fosse soltanto loro la colpa di questa irreversibile tragedia cui tutti siamo condannati?

IL DOVERE DI NON SMETTERE DI LEGGERE

Facciamo un po’ di controfattualità. Cosa non avremmo oggi senza agricoltura industrializzata? Inquinamento. Va bene. Sfruttamento. D’accordo. Però magari anche qualche diritto umano che si è conquistato nei decenni. Come pure alcune vittorie su fronti ancora più pratici. Difficile pensare infatti che, senza industrializzazione, oggi una porzione così ampia della popolazione mondiale vivrebbe a questi livelli di sanità, alimentazione, alfabetizzazione, occupazione, raggiunti faticosamente dall’Ottocento in poi.

Negli ultimi cinquant’anni il Pil pro capite del Bangladesh si è moltiplicato per cento (Fonte, Banca Mondiale). Il tasso di alfabetizzazione in Bolivia è progredito del 20% (Fonte, Banca Mondiale). Mentre in Nigeria, dall’inizio del Terzo millennio, il tasso di mortalità infantile è crollato dall’11,2% al 6,3% (Fonte, Banca Mondiale). Stiamo parlando di Paesi che rientrano nella categoria “vittime”, ma pur essendo tali presentano percorsi di sviluppo che meritano un riconoscimento. La notizia infatti è che, nel dramma generalizzato, ci sono anche delle cose buone da osservare. A chi vanno attribuiti simili risultati positivi?
Il guaio delle ideologie e dei luoghi comuni, infatti, è che nella loro agevole semplificazione, non vengono opzionate più spiegazioni al fenomeno. C’è un problema, si indentifica il colpevole, gli si spara. Punto.

“Oggi, nell’atmosfera è presente più Co2 che negli ultimi 3,6 milioni di anni”. Così inizia Matthew R. Sanderson, l’autore di Foreign Policy. Il sensazionalismo di queste parole induce a ricordare gli ammonimenti di Wolfgang Behringer nella “Storia culturale del clima”, il quale spiega come grazie agli studi sulla radioattività – se fossimo politicamente scorretti potremmo dire che anche l’energia nucleare ha fatto qualcosa di buono – sia possibile analizzare quei sedimenti naturali, che vanno a comporre gli “archivi della Terra”, utili a loro volta per definire l’evoluzione dei processi climatici. Bene, senza entrare nel dettaglio, l’autore sostiene che le evoluzioni climatiche del nostro pianeta – sul lunghissimo periodo, quindi anche precedenti ai 3,6 milioni di anni – non sono dipese unicamente dall’uomo. Glaciazioni e periodi di surriscaldamento, ergo maggiore Co2 nell’atmosfera, si sono intervallati indipendentemente dall’industria e dall’agricoltura.
Da uomo non di scienza, viene il dubbio a chi dar ragione tra i due. Entrambi sono docenti universitari, titolati a scrivere di queste tematiche. Ma con evidenti approcci opposti.

UNA MODESTA PROPOSTA

Se l’agricoltura industrializzata non va più bene – almeno secondo alcuni – è altrettanto evidente l’impossibilità di tornare a quella sussistenza. Crescita demografica e urbanizzazione sono i primi due validi impedimenti. D’altra parte, tutti noi abbiamo diritto di sfamarci, lavorare, vivere… E la vecchia “Modesta proposta” di Jonathan Swift di far ingrassare i bambini poveri, perché diventino cibo per i ricchi, è stata giudicata irricevibile da più voci.

Non resta quindi che abbandonare i toni sensazionalistici, come pure la pratica della ricerca del colpevole invece che la soluzione. I problemi del mondo sono di natura politica e da affrontare con schietto realismo. Prossimamente su questo pianeta saremo 8 miliardi. Molti di noi ancora non hanno accesso ai beni basilari di sussistenza e non vengono loro riconosciuti neppure i più banali diritti umani. Ma è altrettanto vero che molte buone pratiche sono già state implementate perché sempre più persone possano uscire dall’attuale stato di arretratezza e povertà. Si tratta di buone pratiche di grandi dimensioni, realizzate da grandi soggetti, perché tanti sono i destinatari. Per sconfessare Foreign Policy, grande magari non è l’opzione migliore, ma la più fattibile.

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