Ridisegnare la scuola e l’università significa mettere i giovani nella condizione di competere realmente. L’analisi della condizione giovanile mostra che il più grande asset che ha oggi l’Italia, il suo futuro e i talenti dei suoi figli, è zavorrato da scelte sbagliate.Il nostro Paese, infatti, ha registrato negli ultimi anni un peggioramento costante degli indicatori lavorativi e purtroppo anche scolastici. Gli ultimi dati tratti dal Rapporto Giovani 2016 della Fondazione Toniolo evidenziano, ad esempio, come l’Italia vinca la maglia nera peril più alto tasso di abbandono scolastico in Europa: il 15% dei nostri studenti non va oltre la terza media, il tasso di occupazione dei laureati tra i 25 ed i 34 anni è pari al 62% (contro l’82% del resto d’Europa). Si tratta di tutti elementi determinanti nel costituire il peggiore dei record, quello della popolazione di Neet più grande d’Europa, composta da circa 2 milioni di ragazzi, concentrati soprattutto nel nostro Sud, dati che non solo ci costano in termini sociali e morali, ma soprattutto determinano una perdita di ricchezza prodotta calcolata in oltre 35 miliardi di euro.
I dati Istat relativi a fine 2017 indicano il tasso di disoccupazione dei giovani 15-24enni a 32,7%, ben al di sotto del 40,3% del 2015 e dato migliore dal 2012. Putroppo però la situazione al Sud è ancora grave. Il livello massimo di disoccupazione, infatti, si registra nel Mezzogiorno (54,1%), soprattutto in Calabria, dove arriva al 65,1% e fra le ragazze (58,1%). Essere giovani donne meridionali è una triplice iattura. Il gap è tale che si è calcolato che un semplice aumento in decimali dell’occupazione giovanile femminile meridionale potrebbe portare un beneficio pari a oltre un punto di Pil: soldi utili per costruire asili e favorire nuove e pari opportunità.
Altri dati, inoltre, rivelano come la questione giovanile sia parte di una questione più complessa, legata all’ethos e all’habitus del nostro mercato del lavoro, gerontocratico, basato sul censo e respingente per tanti ragazzi.
In Italia, infatti, il 70 % dei giovani tra 18 e 35 anni vive con i genitori, molto più dei loro coetanei europei (Fonte Eurostat). Figli che vivono a casa perché è sempre più difficile trovare dei lavori che consentano di raggiungere l’indipendenza economica. Bassi salari, bassa crescita, bassa propensione a investire sul futuro e rischiare – che dovrebbero essere delle attitudini fisiologiche per i più giovani -. Non si tratta, ovviamente, di una colpa dei nostri ragazzi, ma di una incapacità degli adulti – ovvero del nostro sistema sociale e istituzionale -, di valorizzare adeguatamente il capitale umano dei più giovani. I ragazzi che non rischiano, che non lasciano la famiglia per valorizzare se stessi creando opportunità nel mercato del lavoro, è perché sanno che quel mercato è ingessato e, per quanto si possano impegnare, sarà difficile trovare e creare le agognate opportunità.
L’Italia è uno dei paesi Ocse con la più bassa mobilità sociale, dove i figli dei poveri, per quanto meritevoli, resteranno poveri, e i ricchi, senza dovere essere particolarmente brillanti, otterranno un lavoro “estrattivo”, da rentier più che da creatore di ricchezza per sé e per la società.
Secondo il rapporto Demos, non solo la fiducia in Italia verso le istituzioni è bassissima, ma è altissimo il numero di persone che trova lavoro attraverso la raccomandazione. Si tratta di raccomandazioni molto diverse da quelle che vengono fatte in Paesi più efficienti e meritocratici, dove io ti raccomando perché tu sei una persona brillante, mi farai fare bella figura e rafforzerai il mio capitale relazionale. In Italia, si raccomandano conoscenti, spesso poco meritevoli, tanto alla fine paga Pantalone, e un posto in un carrozzone pubblico non si nega a nessuno. Insomma, l’ambiente sociale – ma anche l’incapacità delle istituzioni di innescare circoli virtuosi -, rafforza la percezione – che corrisponde alla realtà -, nei nostri giovani, che lavorare sodo non conti: sarai premiato per le tue conoscenze, non per le tue competenze.
A che serve studiare sodo e rischiare, se la gara sociale non è una “struggle of the fittest”, come diceva Darwin, ma è truccata?
Ne consegue che la “questione giovanile” non è altro che l’epifenomeno di una più ampia questione nazionale. Faccenda complessa, in cui si incrociano variabili economiche, storiche e culturali, e che si potrebbe risolvere cambiando passo. Accettando la sfida della meritocrazia – e liberando l’Italia da rendite corporative ed estrattive -, i meritevoli potrebbero raggiungere i risultati migliori. L’aumento della produttività – e l’aumento della ricchezza prodotta da una impresa o da una istituzione pubblica, non diretta da un semplice “raccomandato”, ma da quello più bravo -, porterebbe risultati concreti; non solo nei termini dell’efficienza, ma anche dell’equità. Per liberare la forza dei nostri giovani, è necessario virare verso l’economia della conoscenza a partire dal primo incubatore dei saperi: scuola e università.