Smart Working: Un’Anomalia Italiana

Negli Stati Uniti un terzo dei lavoratori collabora da esterno con le imprese, a tempo pieno o parziale. Nel giro di pochi anni si potrà arrivare a quasi la metà della forza lavoro totale. Non è uno scenario apocalittico, più semplicemente la risposta ad un mercato del lavoro che si trova a dover fare i conti con la digitalizzazione. Mentre in Italia qualcosa non torna.

L’Eurostat ha calcolato che in Italia i lavoratori che si definiscono autonomi sono il 21%, la media europea è del 15%, mentre in Grecia sono il 29%. E’ un trend netto, accentuato dalla fluidità dei rapporti di lavoro che non si costringono più all’interno delle quattro mura di un ufficio, ma che, grazie alla tecnologia, permettono l’ottimizzazione dei tempi e il raggiungimento del risultato indipendentemente dal luogo di lavoro.

Due sono le variabili principali che stanno contribuendo al radicale cambiamento dell’organizzazione del lavoro:

  1. L’accesso alle informazioni. Ormai chiunque può essere connesso, lavorare da remoto e scambiare dati in tempo reale;
  2. L’offerta del talento. L’indipendenza e l’individualismo sono le motivazioni principali a spingere i Millennial verso un’occupazione maggiormente autonoma, coerentemente con il desiderio crescente di lavorare di più da casa, infatti più di un quinto degli impiegati si dice disposto a rinunciare fino al 5% dello stipendio per poter lavorare uno o due giorni da remoto.

Ma non è sempre tutto oro quel che luccica. La realtà degli autonomi italiani è fatta di grandissime difficoltà nel valorizzare il proprio lavoro, di ritmi intensi e di ritardi cronici nei pagamenti. C’è da tenere in considerazione anche la portata del fenomeno nel nostro Paese. Il 21% dei lavoratori a dichiararsi autonomo è una cifra importante che va però spacchettata: da una parte si è abusato delle cosiddette Co.co.co., ossia le collaborazioni coordinate continuative, per cui si facevano passare per autonomi lavoratori che autonomi non lo erano, e dall’altra c’è la condizione di chi ha dovuto ripiegare sul lavoro autonomo: con un accesso al mercato tanto fragile molti pur di lavorare si fingono autonomi.

Secondo la Freelancers Union esistono dei miglioramenti nelle condizioni di vita dei freelancer, almeno negli Stati Uniti, dove il 79% degli autonomi ha dichiarato che lavorare da freelance è meglio che lavorare da dipendente. Ma la dimensione italiana è tutta un’altra storia, la storia del fallimento delle politiche attive del lavoro. In Italia si si spende appena lo 0,5% del Pil per le misure di inserimento attivo, in Danimarca e in Svezia rispettivamente il 2,05% e l’1,27%, quindi non aspettiamoci miracoli.

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